Thanopulos: “la ferita della femminilità è la ferita della civiltà”

Il mondo in cui viviamo non accoglie il desiderio e il dolore delle donne. Il fenomeno persistente del femminicidio mostra i sintomi allarmanti di una malattia collettiva, che minaccia il tessuto costitutivo della relazione erotica con la vita e manifesta l’assenza di moventi passionali reali. Se, come sembra, è in corso un processo di disumanizzazione, i suoi protagonisti ne sono soltanto gli agenti manifesti. Le cause vanno cercate altrove. Gli appelli al ritorno del padre in quanto autorità assicurante dell’ordine, e dunque salvifica, oscurano la causa più importante dell’attuale disagio della civiltà: la crisi di ogni relazione basata sul desiderio, il lento declino del “letto coniugale”. Da sempre la civiltà occidentale assegna all’uomo un potere sociale che eccede il suo ruolo di soggetto desiderante, e questa rendita di posizione ora sembra slittare rapidamente verso lo svuotamento libidico di tutte le relazioni di scambio, rendendole ripetitive, quasi meccaniche. A causa della maggiore libertà della sua organizzazione psicosessuale, la donna può raggiungere una condizione di abbandono più profonda rispetto all’uomo. Nell’amplesso la differenza sfuma, ma una discrepanza resta in tutte le esperienze significative di compenetrazione dei vissuti. Se oltrepassa una soglia di intimità, la donna può trovarsi a tratti sola. L’avanzare di modalità indifferenzianti di relazione erotica emargina il desiderio femminile, spingendo la solitudine verso l’estraniazione di sé.

cover__id4004_w800_t1526983220__1x.jpgE’ davvero difficile intraprendere qualsiasi discorso sulla condizione delle donne nella società attuale, o almeno lo è nello spazio ristretto di un articolo e con una conoscenza davvero parziale, minima, di tutto quello che viene chiamato in causa a tal proposito. Proverò comunque ad individuare i punti cardine di La solitudine della donna, il secondo libro che leggo a tema “femminicidio” – anche se è troppo riduttivo definirlo in questo modo –, che fa parte della collana Elements di Quodlibet edizioni. Una volta terminato il saggio, mi sono resa conto di quanto sia stato illuminante ed importante per la formazione di un pensiero più completo e dettagliato su una questione urgente che riguarda noi tutti.

Sarantis Thanopulos è un analista S.P.I. di origine greca, che conta già diverse pubblicazioni nell’ambito di uno studio rivolto alle verità nascoste della nostra società, alla sua organizzazione e ai meccanismi che innesca nelle menti di uomini e donne. Con questo scritto Thanopulos si rivolge soprattutto a chi vive ancora nell’ignoranza, per descrivere i sintomi e gli effetti di una malattia dilagante nei confronti della quale la civiltà deve riconoscere il peso della propria responsabilità. La questione della donna e della sua condizione e concezione nella società costituisce il centro della nostra esistenza:

Stiamo ferendo, tagliando, l’albero sul quale siamo seduti.

Cominciamo col definire il femminicidio nell’ottica dell’autore:

Il femminicidio è un fenomeno complesso. (…) Rappresenta l’estrinsecazione di una distruttività sotterranea fatta di correnti di rifiuto della donna così finemente intrecciate con i conflitti sociali da rendere complicata la loro messa a fuoco. La donna è attaccata (…) per motivi diversi ma convergenti: è colpita come soggetto sociale tradizionalmente debole sul piano dei diritti, (…) poi come fattore di destabilizzazione delle norme che sorreggono gli scambi sociali e le forme di comunicazione. E’ inoltre aggredita come oggetto di sfruttamento. (…) Infine essa viene colpita come oggetto del desiderio che resiste a ogni tentativo di produzione rassicurante e preconfezionata della soddisfazione, rendendone manifesto il fallimento.

Il ragionamento si estende in sei esaustivi capitoli, e parte dalla considerazione di quelle politiche di discriminazione che hanno riportato alla luce la percezione della donna in quanto “macchina procreatrice”; tutto questo, che accade oggi come allora, può causare l’identificazione della maternità, per la donna, con una trappola all’interno della quale è costretta, vedendosi portare via man mano la propria identità che prescinde da questo aspetto e che la allontana progressivamente dal desiderio. L’estraniazione da sé avviene in una società indifferenziante, ed è dovuta alla costruzione di una relazione di desiderio fra uomo e donna, fra genitori, che non è paritaria.

La maternità è profondamente vulnerabile se il desiderio femminile non è sufficientemente riconosciuto all’nterno del contratto tra la donna e l’uomo, che costituisce, al tempo stesso, la socialità e l’incontro erotico (etero e omosessuale) tra gli amanti.

Garantire alla madre il diritto di essere una donna realizzata sul piano erotico come su quello del lavoro dovrebbe essere il primo obiettivo della civiltà, piuttosto che la sacralizzazione della maternità (che la svuota di verità o la demonizzazione di chi cade sotto il suo peso).

Il matrimonio e la maternità sono trappole possibili, se non si tiene conto delle differenze fra i modi di essere dell’uomo e della donna e se non ci si relaziona in maniera paritaria. La donna, fisiologicamente, è più aperta ad un profondo coinvolgimento, guarda il mondo con un occhio interiore, e questo la rende maggiormente esposta all’altro, la può rendere più fragile; soprattutto se l’uomo che ha di fronte, che già tende a temere la “parte femminile” di sé, si irrigidisce nell’invidia della sua condizione, si sente minacciato attraverso quel senso di castrazione che è nato con l’emancipazione della donna. Le donne XY, che rinunciano alla femminilità per avere un posto nel mondo, costituiscono il fenomeno che meglio rende manifesta la paura fisiologica di coinvolgimento dell’uomo.

Lo sviluppo della civiltà (…) è strettamente associato all’emancipazione compiuta delle donne.

 

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Quella che può sembrare un’argomentazione un po’ ingarbugliata, è semplicemente un modo per ripetere, ancora una volta, che i fatti di cronaca degli ultimi anni, che contano ogni giorno almeno una storia di omicidio-suicidio o di violenza sulle donne, prendono il via da un problema reale che non scaturisce dalla natura dell’uomo – secondo un modo di pensare sessista o antiquato –, ma che è insito nell’organizzazione della nostra società. La società di oggi impone egoismo e diffidenza nei confronti dell’altro, non permette che il rapporto fra gli uomini, fra gli uomini e le donne possa avere luogo senza che l’uomo si senta in qualche modo su un gradino più in alto, come detentore di diritti che alla donna non sono mai appartenuti veramente. La condiscendenza che si trova a volte nelle donne, che si lasciano privare della propria identità e che sottostanno a condizioni inumane, non è sinonimo di complicità, ma rispecchia quel modo di essere di cui ho parlato in precedenza, che fa vivere la donna nella prigione di un amore impossibile e che le fa  concepire la manipolazione come l’unico modo per respirare il desiderio.

La differenza muove il desiderio, ma può entrare in contrasto con l’intesa. (…) Per poter desiderare si deve rispettare l’oggetto amato.

Rispettare il desiderio dell’altro e farsi rispettare nel proprio è necessario perché si possa restare entrambi vivi come soggetti desideranti.

Cosa succede? Le relazioni di desiderio che gettano la base etica delle leggi e del vivere civile, si sono trasformate in relazioni di potere; da ciò nessuno è immune, uomo o donna che sia – il concetto di “genere”, come dice Thanopulos, è fuorviante.

Le differenze sostanziali fra donna e uomo, che ci sono e che riguardano soprattutto la sfera emozionale, il modo di guardare e relazionarsi al mondo e agli altri, erano ben evidenti nelle tragedie greche e latine: il furor si esplicitava in maniera diversa nell’uomo e nella donna, era una follia sottile e devastante che poteva esplodere in furia omicida nell’uno, in pura dissennatezza per l’altra – a volte, in suicidio; basti ricordare i casi emblematici di Didone o di Amata nell’Eneide. E questo secondo me è importante da sottolineare, perché certe cose negli uomini non cambiano ed è necessario che non venga a mancare mai quell’equilibrio fra passione e senso di responsabilità.

Il femminicidio ha poco a che fare con la passione disperata, (…) è più vicino alla psicosi asintomatica. (…) L’uomo uccisore distrugge nella donna la parte femminile di sé, che lo fa sentire vulnerabile e impotente.

 

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Sarantis Thanopulos

 

Questo non vuol dire che non ci siano stati casi di femminicidi compiuti da donne. Sia ben chiaro che il target di Thanopulos non è quello degli “uomini potenziali uccisori”, ma la società in tutti i suoi componenti. Per questo egli si serve di esempi letterari famosi come Madame Bovary, Medea, Penelope e Ulisse, Edipo ed Elettra, nonché di fatti di cronaca nera attualissimi e dolorosissimi, che danno il via a una serie di riflessioni particolarmente acute per le quali vi invito a leggere il libro e che sarebbe impossibile trattare in questa sede. Il tema principale viene sviscerato nelle sue cause più remote, dal rapporto con i genitori da bambini – si parla anche di infanticidio – fino ad esaminare il contesto nazionale e religioso in cui si collocano determinati atteggiamenti nei confronti della sfera femminile. Interessante a tal proposito il paragrafo che esamina la condizione delle “donne velate”, in cui l’autore avvicina le due fedi, islamica e cristiana, alla luce della considerazione generale per la quale una donna, in qualsiasi caso, “deve essere spogliata o vestita secondo convenienze a lei estranee”.

Assistiamo attualmente a un’inversione, potenzialmente inesorabile, del processo di civilizzazione. E’ colpita al cuore la femminilità: (…) la ferita della femminilità è la ferita della civiltà.

Alla fine di questo concitato percorso di dolore e presa di coscienza, la considerazione è una: la solitudine della donna si situa nella mancanza di una comunicazione profonda che parte dai rapporti più intimi, che sfocia nella depressione e nella morte. È una bomba che si nutre delle parole non dette, delle paure viscerali degli esseri umani e che dovremmo esaminare e riconoscere come responsabilità di tutti, per quanto difficile possa essere ammetterlo.

Possediamo i mezzi più efficaci, ormai: impariamo a informarci, a divenire consapevoli.

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