“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.
Torino, 11 Aprile 1987: ad oggi sono passati esattamente trent’anni dalla morte del chimico e scrittore italiano Primo Levi, ebreo, deportato ad Auschwitz nel 1944. Riuscì a scampare alle atrocità del lager con la liberazione del campo nel 1945 e, tornato in Italia, impegnò tutta la vita che gli restava a raccontare quelle medesime atrocità che aveva visto, sentito, provato sulla propria pelle. In un modo o in un altro, tutti conosciamo il suo romanzo più famoso, Se questo è un uomo, ma lo scritto che voglio recensire oggi in memoria di Levi è un altro.
È stata la sorte a portarmi a questo libro angosciante quanto fondamentale: l’argomento della mia tesina di maturità infatti imprigionava esattamente il messaggio dell’autore, ma io non lo avrei mai saputo se la mia fantastica professoressa di lettere non me lo avesse suggerito, quando le illustrai le idee per il mio percorso – grazie, professoressa D’Attardi. Dunque, grazie alla sorte e alla fortuna di aver incontrato la professoressa, ho letto e apprezzato I sommersi e i salvati (edizione Einaudi con prefazione di Tzvetan Todorov; € 10,00), scritto nel 1986. Nonostante sia passato un po’ di tempo dalla mia lettura, mi pare sempre di esprimere commenti a caldo, perché il mondo che ci racconta Primo Levi non è poi così lontano come ad alcuni può sembrare.
Ciò che più mi ha impressionato di Levi è stata la sua volontà di comprendere tutti i meccanismi complessi ed insani che si innescano nel momento in cui viene generato il male, ma con un approccio costantemente oggettivo e quasi scientifico. Noi possiamo soltanto lontanamente provare ad immaginare l’estrema difficoltà che si prova nel distaccarsi il meglio possibile da una circostanza che tocca così nel profondo; una tragica serie di eventi che gli avevano lacerato l’anima nella constatazione che può effettivamente esistere l’inumano nell’umanità. Ma Primo Levi non ci parla mai di mostri, e questo è un dato che ben dimostra l’oggettività della sua osservazione: egli non giustifica quelli che oggi definiamo “carnefici”, ma non li descrive nemmeno come creature lontane dalla sfera umana, perché di fatto siamo noi esseri umani gli artefici del male, che diventa inarrestabile e devastante nel momento in cui non è accompagnato da “istruzioni per l’uso”. Ecco un’altra cosa che Levi vuole offrirci con questo suo libro: delle istruzioni per l’uso del male, delle interpretazioni reali, funzionali, oggettive dell’orrore sofferto e dei significati che esso ha assunto; per questo motivo ritiene fondamentale l’educazione in tutti i campi, che ci consente di riconoscere il bene ed il male fuori e dentro di noi.
I sommersi e i salvati si apre con dei versi brucianti da The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge, che mettono subito in evidenza lo stato d’animo con cui l’autore si è approcciato alla scrittura di un’altra opera sugli orrori dei campi di sterminio: Since then, at an uncertain hour / That agony returns: / And till my ghastly tale is told / This heart within me burns. L’esperienza personale dell’autore diventa il punto di partenza di una analisi che si espande anche ai gulag sovietici e ad esperienze analoghe:
“La mancata diffusione della verità sui lager costituisce una delle maggiori colpe collettive del popolo tedesco, e la più aperta dimostrazione della viltà a cui il terrore hitleriano lo aveva ridotto”.
Ma scandagliare a fondo il male non porta Levi a rinunciare alla ragione, ed è proprio con questa volontà salda che ragiona sulla pressione che un regime totalitario esercita sull’individuo in maniera tremenda, sulla “memoria umana” che è uno “strumento meraviglioso ma fallace”, sull’oblio fisiologico direttamente consequenziale a quei drammatici eventi, che nessuno riusciva a credere fossero davvero esistiti. E sono interessantissime le riflessioni di Levi sulla distinzione tra vero e falso che “perde progressivamente i suoi contorni, e l’uomo finisce col credere pienamente al racconto che ha fatto così spesso e che ancora continua a fare (…): la mala fede iniziale è diventata buona fede”.
Il messaggio che Levi vuole trasmetterci attraverso queste prime riflessioni è il seguente: edificarsi una verità confortevole consente agli uomini di vivere in pace. Ciò spiega due atteggiamenti umani su cui medita successivamente l’autore e che ad una prima lettura possono sembrarci surreali: i deportati nei lager non raccontarono gli orrori subiti per tanto tempo, per vergogna ma soprattutto per paura di non essere creduti; ed in effetti, nel momento in cui riuscivano a farsi forza e a raccontare, non venivano creduti. Quelle atrocità erano troppo, anche solo per essere pensate, narrate. L’uomo non poteva essere capace di tale sterminio; l’uomo è un essere fatto di ragione. Ed è per questi atteggiamenti che, ci spiega Levi, i ricordi vengono filtrati, modificati ad ogni narrazione, fino a cristallizzarsi in brevi scene che eliminano drasticamente i momenti più dolorosi … fino ad arrivare all’oblio, il vero nemico da combattere in tempo di pace:
“Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli”.
I capitoli dell’opera procedono per argomenti piuttosto specifici, tutti ovviamente collegati dal filo drammatico del campo di sterminio e della ricerca delle cause del male: questo spiega il titolo, che annovera quelli che non ce l’hanno fatta (i sommersi) e quelli che invece ce l’hanno fatta (i salvati).
Ma è davvero possibile considerare i sopravvissuti dei “salvati”? Tale concetto viene facilmente messo in crisi dalla riflessione dell’autore sulla cosiddetta zona grigia, ovvero “la classe ibrida dei prigionieri-funzionari (…) che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudizio”. Anche questo aspetto complesso, scrive Levi, ci dimostra quanto è difficile definire una netta e semplicistica distinzione fra i <<buoni>> e i <<cattivi>>; oltre che impossibile, sarebbe anche inutile ed inesatta. Piuttosto Levi scrive che “rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grige, ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende ad accrescerne la schiera; esse posseggono in proprio una quota (…) di colpa, ed oltre a questa sono i vettori e gli strumenti della colpa del sistema”. Le Squadre Speciali formavano questa cosiddetta zona grigia: erano i prigionieri addetti a “tenere a bada” gli altri prigionieri, i prigionieri addetti ai “lavori sporchi”.
Comunicazione impossibilitata, vergogna, violenze inutili e fini a se stesse: questi sono i concetti e gli eventi tragici che Levi porta ancora una volta a galla nella sua memoria intrisa di orrori; i drammi dell’ignoranza voluta, della paura, dell’indifferenza.
Primo Levi è stato uno dei più fermi sostenitori del bisogno di verità, della necessità della testimonianza priva di filtri anche e soprattutto riguardo agli avvenimenti più mostruosi, affinchè si impari dalla nostra storia, affinchè gli errori-orrori non si ripetano. Levi ci insegna che, nonostante tutto, l’uomo non può e non deve smettere di cercare la verità, che non è soltanto un bisogno individuale ma anche un bisogno collettivo, che fa male mentre porta in salvo.
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