<<Acabar>>, in spagnolo, significa finire. E in sardo <<accabadora>> è colei che finisce. Agli occhi della comunità il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi. Perché è lei l’ultima madre.
Quando la mia cara zia Enza mi ha calorosamente introdotto alla scrittura di Michela Murgia, decisi di documentarmi a riguardo, e dopo poco tempo mi recai alla libreria Feltrinelli per acquistare qualche suo scritto. Fra le opere che ho scelto – giusto per cominciare – c’è Accabadora (Edizione Einaudi; € 10,00).
L’accabadora è una figura a metà fra mito e realtà, tipica di una Sardegna tra storia e leggende popolari che la Murgia sceglie e ci descrive come sfondo delle vicessitudini che scrive. Ma questa Sardegna degli anni ’50 rappresenta uno scenario vivo, dinamico, con le sue regole, i suo patti non scritti, taciuti ma condivisi, che segnano le radici profonde di ogni paesano; questa Sardegna si porta dietro e porta avanti l’esistenza di ogni singolo personaggio, con le carezze e la severità di una buona madre. Il legame con la terra ed il paese si riflette nel registro linguistico utilizzato, arricchito da terminologie dialettali anche in assenza di scambi dialogici, facendo forse leva sulla credenza (diffusa anche fra noi Siciliani) che molti termini specifici del dialetto risultano a tutti gli effetti intraducibili. Sì, ne siamo fortemente convinti, e spesso abbiamo ragione.
Non voglio soffermarmi sulla trama, lineare quanto complessa a causa della presenza di numerosi personaggi, ciascuno dei quali ben caratterizzato e profondo. Voglio piuttosto soffermarmi su due termini cruciali per la trama: “accabadora”, naturalmente, e “fill’e anima”. Come ho preannunciato, l’accabadora è una figura leggendaria, una donna che pratica l’eutanasia su richiesta delle famiglie, esclusivamente nei casi in cui non c’è realmente più nulla da fare. Non è un medico, non è un’infermiera: lei è “l’ultima madre” che aiuta i “figli” a fare l’ultima cosa che resta loro da fare, morire. L’accabadora della nostra storia, Bonaria Urrai, vedova e sarta, prende a fill’e anima la piccola Maria Listru, con il consenso della madre biologica che non se lo fa ripetere certo due volte. Maria viene ceduta a Bonaria secondo quel rapporto madre-figlia che ha la forza aggiunta di una scelta: ecco cosa vuol dire fill’e anima, un bambino nato due volte, “dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra”. E questo è l’inizio di un legame inscindibile, attorniato da un alone di morte che ha il sapore delle cantilene dolorose delle vedove del paese ai funerali dei mariti.
E’ singolare la correlazione fra questo saldo rapporto e il “compito segreto” di Bonaria, che sostiene che “le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge”. Ora possiamo chiederci: qual è il confine della moralità? Fino a che punto è concesso ad una donna (in questo caso) di infiltrarsi fra la vita e la morte e determinare l’effettivo verificarsi di quest’ultima? Qual è il confine fra ciò che è giusto e ingiusto in relazione alla nostra società?
A tutti questi interrogativi l’accabadora risponde con semplicità: “ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno”. Semplice. La questione, le nostre domande restano aperte e dubbiose.
Infatti, fra i molteplici spunti di riflessione che ci offre la Murgia, questo è l’aspetto più interessante: la lettura prosegue nella assoluta consapevolezza del “compito” notturno della donna, senza mai però condurre il lettore verso una linea sicura e netta di pensiero. Il lettore continua a riflettere, io stessa continuo a riflettere, continuo a pormi delle domande prive di risposte concrete e certe.
Bonaria Urrai fa vacillare ogni convinzione preesistente alla lettura di questo libro, che sia pura demonizzazione o pura accettazione della questione “eutanasia”, portando il lettore a valutare il fenomeno nei vari contesti. Argomento caldo quello dell’eutanasia, oggi; Michela Murgia offre una guida sommersa nella storia, per una lettura che va affrontata lucidamente fino alla fine.
Vita e morte, scelte e regole, divieti, misteri conosciuti ma velati: tutta una serie di tematiche trattate con la delicatezza, il senso critico e lo stile concreto della Murgia che, con questo scritto, ha vinto a buon titolo il premio Campiello nel 2010.
Spero che molti di voi che state leggendo questa recensione vogliate accingervi alla lettura di questo libro: decisamente consigliato.
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