Andrea si allontana da un amore finito e da una città da cui non ci si separa mai davvero, Napoli. E pure quella storia d’amore lo segue fino a Milano, insieme a tutti i suoi fantasmi, alle sue delusioni e alle sue inesistenti aspettative. L’unica cosa che gli pare importante è andarsene, fiondarsi in un nuovo ambiente completamente diverso, e per il resto si vedrà. Se ne va da Napoli senza dare spiegazioni («infame, traditore, egoista»): e alla fine «stiamo abbastanza bene».
Il titolo di questa recente uscita Fandango Libri, del giovane autore Francesco Spiedo, è la dichiarazione di una generazione: Andrea Lanzetta ha 25 anni e finge di stare bene pur vivendo e andando avanti per inerzia. L’esperienza nuova nell’ambiente milanese non gli dona nuove opportunità perché lui stesso non ne vuole, che sia per lavoro, per amicizia o per amore. Ogni cosa lo riporta a quella assenza, a quell’amore improvvisamente finito male, e già dalle primissime pagine traspare la sua incapacità di riappacificarsi col passato, nonché la sua ossessione per i numeri.
Nella sua perenne scelta di non scegliere, Andrea si rifugia infatti nella compulsione: l’ansia lo porta a contare qualsiasi cosa, che siano le lettere di parole pronunciate o il numero di persone sedute ai tavoli di un bar, per poi trasformarle in percentuali. Il suo amore per la matematica, che lo ha portato a laurearsi nell’omonima facoltà, è l’unica certezza che lo accompagna nello svolgimento dei primi lavoretti da “ragazzo del Sud”. Andrea è quella parte di noi che si lascia trascinare dagli eventi, che asseconda il destino, che vorrebbe tenere in pugno la propria vita ma non riesce ad assumersene la responsabilità: i numeri sono l’unico modo per fingere di avere il controllo della situazione, mentre tutto, di fatto, va a rotoli. I numeri costituiscono il filtro con il quale Andrea si guarda attorno – e lui si diverte ad osservare le persone – e si rapporta al mondo, e saranno anche, inaspettatamente, fonte di nuove preoccupazioni nel corso della lettura. Non rappresenteranno mai, però, un “mezzo” con il quale è possibile ridefinire la propria esistenza.
Ogni volta che mi sale l’ansia finisco per contare. Contare mi aiuta, ma non cambia le cose.
Nelle pagine scorrevoli di questo romanzo, Spiedo affronta moltissime tematiche (apparentemente scontate perché fanno parte della quotidianità di tutti) che sono in effetti spinte esistenziali – per dirla con le parole utilizzate dallo stesso autore durante una presentazione: l’amore, la solitudine, la tristezza, la fuga, il coraggio, l’amicizia e l’affetto, la compulsione sono tutti impulsi forti a una qualche azione che, nel caso di Andrea, non si realizza mai, perché nulla potrà cambiare se non siamo noi a cambiare per primi. Queste spinte si susseguono, si intrecciano, si sovrappongono e si contrastano, spesso sono l’una l’opposto dell’altra (come l’amore e la fuga), ma soprattutto si compenetrano e fanno irrimediabilmente parte di una vita che, prima o poi, deve prendere una direzione più o meno precisa. Una vita in cui bisogna afferrare le possibilità e avere il coraggio di ammettere a se stessi anche di aver sbagliato e di non aver fatto nulla per cambiare. Ammettere che stiamo fingendo mentre pensiamo di “stare abbastanza bene” è il primo passo per iniziare a stare bene davvero. E, in fondo, Andrea lo sa bene.
A che serve ricordare se poi non sai perché fai le cose? Non vorrei essere bravo con il passato, vorrei solo cavarmela con il presente.
Un po’ tutti gli esseri umani fingono o hanno finto almeno una volta nella vita. Basta guardare la famiglia di Andrea, oppure uno dei personaggi più interessanti del romanzo, lo zio Tony, un vecchio più che arzillo, ricchissimo, perennemente dedito ai piaceri. Finge pure la madre di Anastasia e Filippo, finge Luca, ma Andrea sembra sempre il più impostore di tutti. Forse perché è piuttosto facile, per molti, immedesimarsi nelle vicende di un giovane emigrato che vive in una casa spenta e vuota, in cui può parlare liberamente solo con la macchia di umidità sempre più grande del soffitto.
Dovrei darmi una mossa, iniziare a organizzarmi sul serio, accettare che questa, che io lo voglia o no, è casa mia: quindi una spesa decente per iniziare, riempire gli scaffali, qualche bottiglia di vino che non si sa mai, svuotare finalmente le valigie e riporre magliette, maglioni e tutto il resto negli armadi. Appendere qualche stampa alle pareti bianche della camera accanto al musicista dalla faccia gialla. Trasferire la mia vecchia vita in un bicchiere troppo più grande e aggiungerci il resto dell’acqua che manca per riempirla fino all’orlo. Ma come?
Come si smette di fingere? Con quale forza, con quale volontà? Forse, intanto, col tempo. E poi, semplicemente, scegliendo di essere coraggiosi. Ma è più facile a dirsi che a farsi.
Francesco Spiedo, giovane autore che con Stiamo abbastanza bene esordisce come romanziere, si avvale dei più comuni stereotipi per riempirli di significati nuovi e per comunicare un messaggio di forte motivazione e di incoraggiamento a responsabilizzarsi; e si rivolge in particolar modo ad una generazione, quella dei giovani adulti di oggi, che spesso rimane in balia di se stessa di fronte all’incertezza – di se stessi, della scelte di vita, del futuro. A volte succedono delle cose che non è facile metabolizzare, e rimaniamo appesi al passato, vittime (in)consapevoli di noi stessi: fronteggiare direttamente i nostri fantasmi, senza più nascondersi, è l’unico modo che abbiamo per riappropriarci del nostro destino, per togliere quell’“abbastanza” davanti a “bene”, proprio come dice l’autore. L’invito che ho percepito leggendo questa storia è quello di avere il coraggio di «disfare le valigie»: dentro vi troveremo i nostri vestiti mescolati con le nostre angosce, l’ansia per ciò che sarà di noi, la voglia di mettersi in gioco e la paura che tutto quello che ci sembra fondamentale possa crollare da un momento all’altro. Se sapremo accogliere tutti i sentimenti contenuti nelle nostre valigie, forse riusciremo a scommettere nuovamente su noi stessi. Forse riusciremo a cambiare, «perché senza di noi il domani non c’è» – come ha detto Spiedo.
La sua scrittura è di una freschezza rassicurante. Le pagine scorrono rapidamente, fra incursioni ansiogene di conti e dialoghi strani, risposte subito rimpiante. I personaggi si ergono con tutto il loro carattere, riflettendo i contrasti con la personalità del protagonista. Il linguaggio è tinteggiato di modi di dire napoletani che arrivano subito al lettore, anche se non dovesse conoscerne il dialetto, e sottolinea bene, anche in questo caso, le forti differenze fra il “modo di vivere napoletano” e quello milanese. Quando Andrea torna a casa per il periodo natalizio, le dissonanze fra le città di Napoli e Milano appaiono ulteriormente rimarcate, e non dipendono esclusivamente dalle persone, quanto da una diversa atmosfera, da uno spirito cittadino che affiora chiaramente fra queste pagine. Napoli è il sole, Milano è la nebbia; Napoli è il bar con gli amici, Milano è l’aperitivo in piazza; Napoli è Luisa, Milano è Clara. Alla fine, per Andrea, né Napoli né Milano sono “casa”. Solo che Napoli è un modo di essere inestinguibile, impresso, e Milano è solo un modo di essere come tanti altri.
Spiedo mescola commedia e dramma e dopo aver avuto qualche scambio con lui su questo suo primo «esordio dolceamaro, tenero e malinconico», posso affermare che la sua scrittura coincide perfettamente con la sua personalità. E questa è stata per me una bellissima scoperta, perché dai libri – soprattutto da quelli contemporanei come questo – non può non nascere un dialogo costante e fruttuoso. Con l’ironia, col cinismo e con il modo di scherzare tipicamente napoletano (cavalcando gli stereotipi in un modo che non disturba), Spiedo riesce a creare una particolare vicinanza con il lettore, una affinità che perdura fino alla fine. Sarà l’uso della prima persona, inconsueto per alcune tipologie di lettori, sarà la forte ironia o saranno entrambe le cose. Sarà lo sguardo fresco, appunto, che non vuol dire superficiale ma che si pone solo come una nuova modalità per raggiungere la profondità delle cose.
Siamo una generazione che non dice la verità, probabilmente; siamo una generazione che si auto-sabota, che lascia che la vita “ci accada”. E allora io consiglio la lettura di questo libro sia a chi si lascia trascinare dal destino sia a chi procede a passo sicuro. Fermarsi a riflettere (10 lettere) ogni tanto non guasta (6 lettere). E riprendere in mano la nostra esistenza, con tutta la responsabilità (14 lettere) che richiede, è una necessità (9 lettere). Non è il destino che deve guidare il nostro cammino, non sono gli eventi a doverci trascinare di giorno in giorno. Siamo noi che dobbiamo diventare abbastanza impavidi da non frenarci di fronte a quello che la vita può riservarci.
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Un pensiero riguardo “Francesco Spiedo: per svuotare finalmente le valigie”