Il 26 ottobre scorso, presso la Libreria Europa, si è tenuto il primo incontro ufficiale di Palermo Legge – progetto siciliano di cultura. A settembre io e altre splendide persone appassionate (Sonia Cilluffo, Valentina De Giorgi, Maria José Di Salvo, Giorgia M. Duro, Valentina Giuliano, Rosy Lo Baido, Martina Neglia, Chiara Siro Brigiano, Marco Casalicchio, Giorgia Valenti) abbiamo deciso di creare un gruppo di lettura tutto siciliano, mossi soprattutto dalla volontà di fare concretamente squadra e confrontarci, nel nostro piccolo, per arricchirci reciprocamente. E allora abbiamo messo insieme le nostre personali inclinazioni, i nostri interessi, le tematiche scottanti, gli argomenti “scomodi” accanto a quelli “comodi”, e abbiamo scelto una prima lettura da affrontare insieme, con la consapevolezza, però, che non saremmo state soltanto un gruppo di lettura; con la volontà di fare qualcosa di più, nel tempo, raccogliendo idee ed entusiasmi. Per questo motivo la specifica “Progetto siciliano di cultura”: per tutto quello che è elencato nel poster.
Come dicevo, la prima lettura di Palermo Legge, per il mese di ottobre, è stata I leoni di Sicilia, il primo volume della saga dei Florio, scritto dalla trapanese/palermitana Stefania Auci e edito da Editrice Nord: 437 pagine per una prima parte di storia che si distende nell’arco di quasi settant’anni, dal 1799 al 1868. Ci siamo lanciati in questa avventura letteraria praticamente ad occhi chiusi, pensando che fosse una buona idea quella di inaugurare il progetto con una storia che contenesse “sicilitudine” in ogni suo aspetto, una storia che ha luogo proprio a Palermo. Ed è stata davvero una buona idea: il confronto, durato ben tre ore, senza sosta, ha visto “contrapporsi” diversi schieramenti di pensiero, e si è rivelato ricco e costruttivo per tutti i partecipanti. Sono sorti pareri molto diversi (o molto affini) sullo stile di scrittura, sul contenuto, sulla caratterizzazione dei personaggi, e così è stato dipinto un quadro di impressioni più o meno positive su quello che potremmo definire il caso letterario del 2019.
In questo articolo voglio raccontarvi la mia, di impressione, per non lasciar evaporare gli spunti di riflessione che ci siamo scambiati io e i miei compagni di lettura.

Forse era questo ciò che non gli si perdonava: il lavoro. Il potere. Gli occhi aperti sul mondo quando invece Palermo i suoi occhi li teneva ben chiusi.
Io non abito a Palermo: sto in un paese che potrebbe rappresentarne la periferia. Conosco i Florio soltanto per sentito dire, non ero mai passata accanto ai loro luoghi, non mi ero mai chiesta nulla. Già così è abbastanza vergognoso, ma sapete come capita di solito: spesso non si conosce quasi nulla della storia della propria città o della propria regione. Viaggiamo sempre alla ricerca di altre conoscenze, altre storie, altre culture, e ci lasciamo sfuggire il grande patrimonio culturale che abbiamo a portata di mano, tutte le vite che potremmo ripercorrere con un solo sguardo posato su un portone antico. Insomma, mi sono approcciata ai Leoni di Sicilia da “profana”, ma forse proprio per questa mia ignoranza di fondo ho saputo godermi la loro storia al meglio. L’ignoranza in questo caso, infatti, ha significato mancanza di conoscenza ma anche mancanza di precise aspettative.
Attenzione: c’è dello storico, tanto, in questo libro, ma c’è anche del romanzato, e bisogna esserne ben consapevoli per non aspettarsi soltanto uno dei due aspetti – a prescindere dalle proprie preferenze di lettura. È evidente l’enorme lavoro di ricerca storica alla base dell’opera, dimostrata dalle ricostruzioni puntuali delle vicende (seppur non del tutto fedeli, romanzate, per l’appunto) e del contesto, delle ambientazioni, della mentalità dell’epoca che traspare in ogni azione e pensiero dei personaggi.
Qualcuno ha contestato una staticità di fondo dei protagonisti, una assenza di evoluzione caratteriale: io non ho colto, personalmente, questa immobilità, piuttosto parlerei di una coerenza caratterizzante che deve essere calata nel contesto storico e nelle vicissitudini della famiglia Florio. La scelta di abbandonare Bagnara alla ricerca di un avvenire migliore ha comportato per loro – come tutte le decisioni importanti – delle conseguenze positive e negative. L’universo imprenditoriale dei Florio, in tutta la sua magnificenza, si è innalzato su fondamenta di sacrifici, sofferenza, rinunce, delusioni, inimicizie, rimpianti, determinazione rabbiosa (soprattutto quella di Vincenzo) e tanto rancore, sul “peccato originale” della provenienza (i bagnaroti, i facchini, i portarrobbe).
È stato creato con la dedizione di persone semplici che sono state in grado di reinventare la propria sorte, in una città che, ancora oggi, dà molto e toglie molto, risplende di possibilità e ristagna in una pozza di mancata valorizzazione: Palermo, il mercato del mondo, un cuore pulsante di multiculturalità. Non è stato difficile, per me come per tutti i ragazzi del gruppo, entrare appieno in questo sentimento di amara disillusione e, contemporaneamente, orgoglioso puntiglio. In Sicilia, a Palermo, le conquiste, se arrivano, arrivano da uno sforzo impareggiabile, e i Florio ne sono l’esempio emblematico. Per questo parlo di coerenza: c’è un attaccamento al passato, in questi personaggi, che è la loro forza e la loro rovina (interiormente); la loro evoluzione negli anni non si ha in termini di “cambiamento di prospettiva”, semplicemente perché, per l’epoca e per quello che accade, non possono cambiare. Molti atteggiamenti, letti con la forma mentis odierna, possono infastidire o risultare incomprensibili, se non aberranti: bisogna entrare in profondità nella realtà del testo per poterli quantomeno accettare come aspetti di un tempo passato.
Per esempio: Giuseppina, Mattia, Giulia, nelle loro molte differenze, incarnano la sorte inevitabile delle mogli ottocentesche qualcuna più ferma di qualcun’altra nella prigione maschilista della delegittimazione. Il comportamento di Vincenzo Florio, in particolar modo contestato, rispecchia la bassa considerazione delle donne del tempo, l’idea che al masculo non si possa dire nulla, la morbosa devozione al denaro e agli affari, unico vero interesse di tutta la sua esistenza. Ammazzarsi di lavoro non è bastato a cancellare quel velo di oscurità dai suoi occhi, quella macchia nella sua anima (come nella sua famiglia) che è la traccia del dolore: per gli altri, nemici e amici, sarà sempre l’arricchito, il parvenu, e questa consapevolezza lo lacererà per sempre. Per quanto insopportabile e “sbagliato” per alcuni, il personaggio di Vincenzo Florio è stato quello che mi ha fatta riflettere maggiormente, con questa sua collera profonda della quale è pure minimamente consapevole:
Non lo sai, non te l’immagini, quanto mi è costato.
Della Auci ho molto apprezzato lo stile chiaro e scorrevole, la capacità di intrecciare un po’ di fantasia al contesto storico particolare creando sempre qualcosa di verosimile – secondo me. La frammentazione di frasi e periodi a volte può risultare un po’ eccessiva, ma non ha inficiato la fluidità della storia, capace di tener stretto il lettore fra il ritmo lento del paesaggio e quello concitato dell’espansione imprenditoriale della famiglia Florio. Oltre all’immensa brama di riuscire (cu nesci, arrinesci) e a tutto ciò che questo comporta, Auci racconta anche il valore della famiglia, le difficoltà dettate da una condizione imposta, l’importanza dell’educazione in un mondo che non è poi troppo lontano o diverso dal nostro.
Come sarà chiaro, la mia impressione è assolutamente positiva; considerando, poi, che non sono una lettrice abituata alle saghe familiari, consiglio vivamente questo libro a tutti i lettori assetati di storie piene di ambizione, sentimenti, oscurità e verità.
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