Ci nutriamo sempre più di parole, volenti o nolenti, di modelli di comportamento e di immagine, di pensieri che crediamo nostri quando in realtà dipendono dalle continue influenze che cose e persone esercitano su di noi. Viviamo in uno stato di libertà percepita in cui “ognuno è il panottico di se stesso”, come scrive Byung-Chul Han in questo bellissimo – quanto spaventoso, direi – saggio: nel 1791, il filosofo e giurista Jeremy Bentham progetta quello che gli appare come il carcere ideale, nel quale la disposizione degli spazi è tale da consentire a un solo sorvegliante di osservare, nello stesso momento, tutti i detenuti (pan-opticon), senza che questi ultimi possano capire se in quel preciso momento siano o meno controllati.
Ebbene, in questa nuova società del gioco, dello sfruttamento delle emozioni positive e della comunicazione costante, siamo noi stessi a metterci volontariamente a nudo, controllati da un potere invisibile che ci tiene in pugno ancor più di prima, un potere subdolo perché esercita tale controllo attraverso la nostra inconsapevole condiscendenza, un potere che non nega la libertà ma la usa per creare nuove forme di oppressione, che agisce silenziosamente, che “seduce, invece di proibire”.
L’io come progetto, che crede di essersi liberato da obblighi esterni e costrizioni imposte da altri, si sottomette ora a obblighi interiori e a costrizioni autoimposte, forzandosi alla prestazione e all’ottimizzazione.
Siamo gli imprenditori e al contempo i sorveglianti di noi stessi. Come possiamo affermare allora di essere liberi quando finiamo con l’essere schiavi non del dovere ma del potere? Come possiamo raggiungere la consapevolezza necessaria a proteggerci dal denso flusso di informazioni che vorrebbe plasmarci completamente la mente e il corpo? Nella nuova società neoliberale, il Grande Fratello orwelliano ha il volto benevolo di un “ente” che sprona continuamente a condividere, a raccontare la propria vita, a esprimere opinioni, sempre di più e con costanza sempre maggiore. Questi interrogativi e queste considerazioni si pongono alla base del ragionamento del filosofo coreano.
La nuova società digitale, fatta di big data e data-mining, ha creato una nuova divisione per classi, nella quale l’addizione ha preso il posto della narrazione, il calcolo ha preso il posto del racconto e si propugna l’omologazione, perché questo è ciò a cui si aspira attraverso la “dittatura della trasparenza”, perché questo garantisce il controllo:
Quando tutto deve rendersi immediatamente visibile, le anomalie non son più possibili. Dalla trasparenza deriva una coercizione che elimina l’Altro, l’Estraneo, il Deviante. I big data rendono visibili soprattutto i modelli di comportamento collettivo.
Secondo Byung-Chul Han, dunque, viviamo nella società del controllo psicopolitico, in cui il “diktat della positività” ci incita a respingere e a distruggere ogni forma di negatività che potrebbe minare la nostra forza produttiva mentale, ci impone un sostanziale auto-sfruttamento che finiamo per accettare inconsciamente: “Nella società della prestazione neoliberale chi fallisce, invece di mettere in dubbio la società o il sistema, ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento. In ciò consiste la speciale intelligenza del regime neoliberale: non lascia emergere alcuna resistenza al sistema”.
Così finiamo soprattutto per aggredire noi stessi, sentendoci sbagliati o non all’altezza ogni volta che non riusciamo o non vogliamo o non possiamo uniformarci o agire secondo la “dittatura della trasparenza”, che trasforma ogni cosa in informazione, in “apertura” verso l’esterno – perché la “chiusura”, l’interiorità inficiano la comunicazione e ci rendono attivi. Il sistema neoliberale e il controllo psicopolitico hanno bisogno di passività:

“Il neoliberalismo fa del cittadino un consumatore. La libertà del cittadino cede alla passività del consumatore. L’elettore in quanto consumatore non ha, oggi, alcun reale interesse per la politica, per la costruzione attiva della comunità. Non è disposto a un comune agire politico e neppure ne è capace: reagisce solo passivamente alla politica, criticando, lamentandosi, proprio come fa il consumatore di fronte a prodotti o a servizi che non gli piacciono. Anche i politici e i partiti seguono la logica del consumo: devono fornire. […] L’imperativo della trasparenza serve soprattutto a mettere a nudo i politici, a smascherarli o a suscitare scandalo. La richiesta di trasparenza presuppone uno spettatore che si scandalizza: non è la richiesta di un cittadino impegnato, ma di uno spettatore passivo”.
Eppure tutto quello che succede all’esterno ha in noi, dentro di noi, delle conseguenze tremende ed inevitabili: il controllo della psiche comporta patologie psichiche, come burnout, depressione disturbi alimentari o del sonno, per un numero sempre maggiore di persone. Il bisogno pressante che ci porta ad auto-ottimizzare il nostro tempo, le nostre risorse e le nostre energie non ci abbandona mai e ci trascina verso il collasso mentale. Ci sentiamo in colpa non soltanto quando ci sembra di fallire, ma anche quando in noi si fa strada, come un minuscolo tarlo, una qualche forma di pensiero negativo.
“Invece di ricercare peccati, ora si ricercano pensieri negativi: l’io lotta di nuovo con se stesso come contro un nemico”: la mancanza di negatività, tanto ricercata dal neoliberalismo, causa lo svuotamento dell’anima umana. Il dolore ha una grande forza educativa e “l’anima umana deve proprio alla negatività la sua tensione profonda”. Coltivare la tensione profonda dell’anima renderebbe nulli i tentativi di controllo psicopolitico neoliberale: cortocircuito. La psicopolitica del neoliberalismo “annienta l’anima umana, che non è affatto una macchina positiva”. Ecco a voi l’odierno capitalismo finanziario basato sulla psiche in quanto forza produttiva. Il corpo è oggetto di interventi di tipo estetico, chirurgia estetica, fitness, in quanto risorsa da accrescere e commercializzare; la mente, oggi, è il fulcro della nostra capacità di produrre e in quanto tale è sfruttata, “produciamo” alla stregua di macchine, senza fermarci a riflettere, senza fermarci e basta. Siamo passati dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo senza neanche rendercene conto.

Tutto questo mi porta a fare una riflessione, breve ed esemplificativa, su un ambiente del quale faccio parte da ormai quattro anni, quello dell’università, che si muove su queste direttive, da buona istituzione del sistema. Il collasso mentale è tipico dell’ambiente accademico, ma quasi sempre viene banalizzato o addirittura accettato come se fosse parte necessaria e imprescindibile del percorso. Come macchine ben oliate, oramai dagli studenti e dalle studentesse ci si aspetta un certo tipo di resa, senza se e senza ma: ci si aspetta la preparazione delle varie materie una dopo l’altra, come in una sorta di catena di montaggio; ci si aspetta che raggiungano tutti gli obiettivi nei tempi “ideali” e preferibilmente col massimo dei voti; ci si aspetta, insomma, che abbiano una carriera universitaria impeccabile, anche a costo di qualche sacrificio. Ebbene: la salute mentale non è un sacrificio accettabile. Gli studenti e le studentesse sono le prime persone a interiorizzare questo tipo di ingranaggio, e – per le stesse contorte ragioni di prima – finiscono per inseguirlo fino all’autodistruzione. Ed è molto grave che non se ne parli abbastanza, che le problematiche legate alla salute mentale all’interno delle accademie neoliberali non si ritengano materia adatta ad approfondimenti scientifici o ad un mero “riconoscimento” sociale. Chi ne parla lo fa sottovoce. E il sentimento di solitudine, tipico della società neoliberale, non fa che infettare sempre di più gli ambienti universitari, nel silenzio delle cose non dette, sminuite.
Il peso delle aspettative e dei giudizi, propri e degli altri, di un lavoro faticoso e il più delle volte non valorizzato, di un eccessivo carico di ansie è spesso troppo gravoso da sopportare, e non portare nemmeno all’attenzione il problema significa trasmettere un semplice messaggio, forte e chiaro: va bene così, è giusto, è normale che sia così.
Scrive Franco Palazzi in questo illuminante articolo per Il Tascabile:
Come se non bastasse, la depressione può diventare ancora più insidiosa in ambito universitario: essa sembra scardinare la stessa immagine dell’accademico come persona credibile ed affidabile alla luce della sua (presunta) superiore conoscenza di una determinata materia. Non a caso, nel senso comune la persona depressa è ritenuta affetta da una sorta di disturbo di percezione, una tendenza ad accentuare gli aspetti negativi di qualunque circostanza a scapito di una sua più equilibrata interpretazione – rappresentazione tanto più invalidante se riferita a ricercatrici e ricercatori di cui si presume l’avalutatività. L’accademico depresso troverà pertanto difficile parlare della sua condizione, che resta ammantata da un tabù tanto maggiore in contesti dove la produttività viene incoraggiata (o estorta) incessantemente e l’“eccellenza” misurata senza tregua.
La sanità mentale non è il prezzo da pagare per la propria percezione di efficienza in quanto persone. Il sistema neoliberale sfrutta ogni angolo della nostra mente per stimolare la nostra produttività attraverso l’auto-colpevolizzazione, l’auto-sfruttamento e l’auto-ottimizzazione.
Qui di seguito vi lascio un paio di link ad articoli che ritengo interessanti ed utili per approfondire ulteriormente la questione:
- There is a culture of acceptance around mental health issues in academia
- Smettere (On quitting) – Francesca Coin
Il saggio di Byung-Chul Han si chiude con un capitolo dal titolo “Idiotismo”: l’idiota è chi “abita l’esterno che non può essere pensato in anticipo e che si sottrae a ogni comunicazione e connessione. […] L’idiota è il moderno eretico. […] L’eretico […] è qualcuno che ricorre a una scelta libera”. L’idiotismo ci rende singolari e sensibili agli eventi, al futuro.
Deleuze afferma: “Fare l’idiota è sempre stata una funzione della filosofia”; e allora siamo idioti, siamo idiosincratici, siamo eretici, siamo bambini. Siamo esistenze reali, esistenze di fiori: “semplice apertura alla luce”.
Consiglio questo saggio? Assolutamente sì. Lo consiglio a chiunque sia curioso/a di approfondire un argomento particolarmente spinoso ma anche stimolante. Una nota di merito alla casa editrice nottetempo per la qualità dei suoi prodotti, nel contenuto e nella forma.
Byung-Chul Han, nato a Seul, è docente di Filosofia e Studi culturali alla Universität der Künste di Berlino. Autore di saggi sulla globalizzazione e l’ipercultura, per nottetempo ha pubblicato La società della stanchezza (2012), Eros in agonia (2013), La società della trasparenza (2014) e Nello sciame (2015).
Per acquistare Psicopolitica: https://www.edizioninottetempo.it/it/prodotto/psicopolitica
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