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Autobiografia linguistica: infanzia

La verità ha un linguaggio semplice e non bisogna complicarlo.
EURIPIDE

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Mia zia Enza racconta che quando sono nata ero una bedda picciridduna luonga¹; la nonna le diceva, disperata, osservando l’infermiera che mi faceva il primo bagno: “Un si pò sgaddari!”². Sì, a quanto pare sono venuta fuori completamente ricoperta di grasso. Mi sono sviluppata nel mio caloroso nucleo di sole donne – con l’eccezione del nonno e dello zio Carlo che veniva spesso a trovarci – e la mia storia d’amore con le parole ha avuto ufficialmente inizio ad appena due anni dalla mia nascita, quando riuscivo già ad utilizzare correttamente alcuni costrutti linguistici, allontanandomi dalla fase di baby talk del mio primo anno di vita. Mi facevo capire abbastanza bene. Mia madre Adriana, che è riuscita a frequentare per qualche anno l’università a Scienze naturali, si è sempre rivolta a me come lo si fa con una persona adulta: mi spiegava tutto quello che non conoscevo, senza edulcorare le terminologie con commistioni infantili.

Quando volevo raccontare qualcosa utilizzavo dei termini così inconsueti per la mia età che la zia spesso si stupiva e, rivolgendosi a mia madre, diceva: “a sintisti a picciridda?”³. Mi piacerebbe davvero tanto possedere dei ricordi vividi di quel periodo! Di fronte ai miei inusitati comportamenti e alle mie risposte pacate, mia madre ha sempre detto: “Annuccia è saggia”⁴. Mi ha raccontato di una volta che avevo due anni, lei si è addormentata per un′ora sul divano e, quando di colpo si è svegliata presa dal panico per avermi lasciato da sola, mi ha trovata immobile seduta di fronte a lei.
Mia sorella Dorotea, al contrario, dicono sia nata cu l’uocchi ri fuora⁵– in questo tripudio di nascite forse è inutile sottolineare che, da tradizione, lei ha preso il nome dalla nonna materna, io da quella paterna, senza se e senza ma. Anche mia madre ha preso il nome da sua nonna Adriana, da parte materna, in un ciclo inarrestabile tipico dei piccoli paesi siciliani. Curiosità: non abbiamo mai chiamato mia sorella con il nome di battesimo, per noi è sempre stata Dorothy, tanto che la stessa nonna Dora una volta propose di cambiarle direttamente il nome all’anagrafe.

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Io e mia sorella Dorothy

A quattro anni amavo utilizzare i congiuntivi e mi annoiavo a stare all’asilo, così, dopo un anno di preparazione, mia madre ha deciso di farmi fare gli esami per entrare dritto in seconda elementare. Lì ho trovato finalmente pane per i miei denti, la mia curiosità linguistica è stata perennemente stuzzicata da maestri preparati e intelligenti: il maestro Arancio, per esempio, vedendomi così entusiasta nei confronti delle materie umanistiche, mi faceva acquistare dei piccoli romanzi per bambini – un esempio su tutti, Il mistero del cane di Mario Lodi – che avrei dovuto leggere con attenzione per segnare tutte le parole che non conoscevo. Me le faceva annotare su una rubrica insieme al loro significato, e per tutti gli anni delle scuole elementari – e poi anche delle medie – il mio lessico si è espanso così, accogliendo di volta in volta parole per me incredibili e bellissime, come “rischiarare” o “immensità”, parole che ricercavo e memorizzavo (e poi utilizzavo in continuazione), scovate nelle antologie scolastiche e nelle canzoni, termini dei quali adoravo il suono.

Ben presto ho imparato a convogliare questa ardente passione nella scrittura, dilettandomi a inventare fiabe, a scrivere in versi e a riempire pagine e pagine di diari segreti ed agende. Tramite ciò che è rimasto di queste produzioni scritte (che riportano quasi tutte la data e i dettagli più minuziosi) ho osservato che, se da un lato non mi capitava quasi mai di fare errori in merito ai verbi, qualche volta invece esageravo con le reggenze – forse perché ogni volta che utilizzavo la preposizione “a” avevo la sensazione che fosse scorretto, “troppo dialettale”:

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Sorvolando sulla chiusura influenzata dal catechismo – che sembra tutt’al più la giustificazione auto imposta di una bambina che vorrebbe piuttosto infuriarsi con la sorella piccola – , è chiaro che non andassi molto d’accordo con le reggenze, no? “A Dory le voglio”, “…accontentano sempre a lei”: che fosse un caso di ipercorrettismo non ne sono certa. Un’altra cosa che si nota è l’uso spropositato delle virgole (ho imparato a padroneggiare decentemente la punteggiatura soltanto anni dopo) e qualche raro errore di ortografia che mi ha fatto sorridere (come “lensuolo” in questa piccola poesia):

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Scrivevo poesie e storie su qualsiasi cosa mi capitasse. Una volta ne ho scritte due sui cartoncini dei collant, me le portavo in giro e le modificavo in qualunque momento. Altra curiosità: con una di quelle poesie ho partecipato ad un concorso in paese, quando avevo otto anni. Il mio primo personal computer ha rappresentato una svolta in relazione alla scrittura, alla personalizzazione e all’archiviazione delle cose che mi passavano per la testa.

L’ascolto di storie è stato determinante per la mia formazione linguistica, io e mia sorella trascorrevamo gran parte della giornata con la nonna che ci intratteneva e ci istruiva in svariati modi, e non ci faceva mai mancare un racconto o una canzone. Imparavo a lavorare all’uncintetto cantando Oba Ba Luu ba e poi Piange il telefono, segnavo la stoffa col gessetto che mi piaceva tanto, fingendomi una sarta come la nonna, che con occhi vigili e buoni intanto osservava me e Dorothy che si dilettava disegnando. Sono cresciuta a pane con l’olio e canzoni di Modugno e Johnny Dorelli, il racconto di Culapisci (Colapesce) e i spinciuna⁶ tipicamente con i broccoli, e soltanto adesso mi rendo conto di quante cose ho sempre dato per scontate, anche solo guardando alla mia infanzia. Basti pensare a tutte quelle storie del paese che fino a qualche tempo fa ignoravo e che finalmente mi sono decisa a conoscere e scandagliare.

 

Fine seconda parte

 

¹ Bella “bambinona” lunga;
² Non si può sgrassare, let.
³ Hai sentito la bambina?
⁴ Buona, pacata; in dialetto il termine “saggio” ha questa accezione;
⁵ Con gli occhi di fuori, let.
⁶ Gli sfincioni rappresentano il prodotto da forno simbolo di Ficarazzi, in cui ogni anno si tiene una sagra dedicata. Su un impasto simile alla pizza, che però viene fuori molto più alto e morbido, si adagia uno strato di tuma (formaggio siciliano) e quindi la conza (condimento) a base di broccoli – molto gustosa. Ogni anno mia nonna prepara la conza in un enorme pentolone e poi si reca al panificio per realizzare da dieci a dodici sfincioni.


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2 risposte a “Autobiografia linguistica: infanzia”

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Retroscena

Sono Anna Negri, classe ’98, dottoranda in Studi Umanistici a Palermo, ex libraia Mondadori, lettrice appassionata (soprattutto di poesia), aspirante scrittrice secondo il mio diario di terza media. Qui raccolgo attività, pareri, approfondimenti.

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