Occorre ripensare, ricostruire e riformare il canone letterario italiano.
All’indomani di lunghe lotte per l’emancipazione, per l’abbattimento di un certo sistema di pensiero sul ruolo gerarchicamente subordinato della donna rispetto all’uomo nel corso dei secoli, e alla luce di questioni ancora tristemente attuali, è bene riconsiderare interamente le fondamenta delle nostre idee (politiche, ma non solo): perché se è vero che l’Italia sia una “nazione di carta”, fondata a lungo sulle produzioni dei suoi grandi pensatori, artisti, scienziati, allora forse è proprio dalla loro volontà di gettare le basi dell’identità italiana che bisogna partire per cercare le ragioni profonde della quasi totale scomparsa delle donne dalla nostra storia letteraria.

Il Settecento è il secolo dei grandi paradossi ma anche delle grandi conquiste ideologiche, è il secolo della scienza positiva, della ricerca del verosimile. È proprio nel Settecento che, per esempio, in Italia, una delle città più vivaci nella diffusione del sapere illuministico è Napoli – oltre a Milano e alla Serenissima: il Sud è in costante contatto con i più importanti circoli europei e contribuisce attivamente al dibattito economico, sociale e istituzionale (basti citare i nomi di Gaetano Filangieri o di Francesco Paolo di Blasi). Ed è in questo periodo che, accanto al desiderio riformistico dilagante, che ha portato a moltissime conquiste in campo sociale (come la riflessione sulla tortura e sui diritti inalienabili dell’uomo), si staglia però il muro della retorica del maschio sessualmente potente, già fomentata e ingigantita nei secoli precedenti, che di fronte al sorgere di una nuova letteratura, quella settecentesca, appunto, con le sue peculiarità e innovazioni percepite come più tipicamente femminili, cerca di far fronte all’accusa di “letteratura effeminata” come meglio può.
La letteratura così acquista un nuovo valore ed assurge ad un’altra missione. Ancora nel XVIII secolo vige indisturbata la concezione del rapporto donna-immanenza e uomo-trascendenza, che costringe la prima all’unico stato di natura e che si trascina dietro l’idea che all’uomo soltanto possa appartenere lo stato di cultura. Ma questo è, sì, il secolo di Goldoni, Parini e Alfieri, di Metastasio e di Algarotti, ma è anche quello di Teresa Bandettini, Petronilla Paolini Massimi, Pellegra Bongiovanni e tutte le altre poetesse estemporanee dell’Accademia dell’Arcadia: il pensiero virilizzante dell’opera dei grandi pensatori illuministi, che ha espunto volontariamente (e ha dunque sottovalutato, banalizzandole) le numerose e lodevoli prove delle nostre scrittrici, non ci deve perciò trarre in inganno. Escludere una porzione – come anche un’eccezione – della produzione di un intero secolo secolo significa osservare i fenomeni soltanto parzialmente e perdere di vista i reali, significativi cambiamenti che hanno posto le radici della nostra modernità.
L’Accademia dell’Arcadia nasce nel 1690 ad opera di Gravina e Crescimbeni, e subito si pone in contrasto con la letteratura barocca del secolo precedente, tutta incentrata sulla forma esagerata e sulla meraviglia (per De Sanctis, la configurazione più scadente mai raggiunta dalla letteratura italiana). La nuova sensibilità dei numerosissimi arcadi si lega ad una nuova idea di “delicatezza” letteraria, guardando all’Arcadia greca e alla poesia bucolica. Importantissimo sottolineare che questa sia stata l’unica accademia a cui alle donne era concesso iscriversi (anche se, a differenza degli uomini, esse dovevano soddisfare alcuni requisiti relativi alle capacità compositive − già questo la dice lunga). Tatiana Crivelli, nel suo saggio La donzelletta che nulla temea − Percorsi alternativi nella letteratura italiana tra Sette e Ottocento, ha ben dimostrato – dati statistici alla mano – quanto sia stata determinante e anche molto apprezzata l’opera delle poetesse arcadi, che partecipavano alacremente ai salotti e si esibivano da vere performers.

Immagine tratta da “Le scrittrici italiane dalle origini al 1800″ di Jolanda Blasi
Firenze: Nemi, 1930, Tav. XXX. https://www.lib.uchicago.edu/efts/IWW/Portraits/HTML/A0065.html
Se, da un lato, è possibile scorgere, nel lavoro incessante di propaganda e promozione dell’opera delle arcadi, la volontà dell’accademia di porsi come istituzione democratica (dunque con un certo disinteresse verso le produzioni vere e proprie), dall’altro è interessante notare l’immenso riconoscimento che alcune delle poetesse ottennero, anche internazionalmente – basti prendere in esempio la figura di Teresa Bandettini Landucci (in Arcadia, Amarilli Etrusca), lodata persino dal giovanissimo Leopardi, o di Fortunata Sulgher Fantastici (in Arcadia, Temira Parasside), che strinse attorno a sé un animatissimo circolo di intellettuali che la stimavano particolarmente (emblematica l’amicizia con Angelika Kauffmann, pittrice). Tali riconoscimenti si accompagnavano, spesso, a scambi epistolari pieni di encomi, di cui è essenziale, però, sottolineare una pratica comune:
Oltre che volentieri io do sempre lode a chi mi par meritarla, chi negarla potrebbe ad Amarilli Etrusca, se ancora fosse men brava, considerando le due condizioni in lei d’improvvisatrice e di donna? Ma né improvvisatrice appar veramente nelle sue stampe, né donna, tanta è l’eleganza insieme e la robustezza de’ versi suoi.
Scrive Ippolito Pindemonte a Bettinelli dopo aver assistito alla performance dell’arcade suddetta. Anche nell’elogiare l’opera di una donna interviene dunque quel processo di virilizzazione che vorrebbe estirpare dall’essere donna il minimo sospetto di capacità pari a quelle dell’uomo, e che la vorrebbe soltanto musa, passiva raffigurazione dell’interiorità maschile, piuttosto che attiva produttrice di cultura. Contro questo particolare aspetto, l’afflato emancipatorio del Settecento, nella prospettiva di una “letteratura delle donne”, ha innescato dei particolari meccanismi grazie ai quali poetesse come la Bandettini hanno saputo stabilire una pratica di riconoscimento, conferendosi una certa autorità. Tramite la sorellanza, ovvero l’aiuto reciproco fra donne intellettuali, la scelta di determinate tematiche gender e di alcuni generi solitamente relegati ai margini del dibattito culturale, la scrittura spesso classificata “al femminile” ha trovato una propria espressione, e con essa l’aspirazione ad ottenere un proprio posto nella letteratura italiana – in barba a quella “virtù della modestia” che non ha fatto altro che camuffare la perdita intenzionale delle notizie sulle scrittrici e la loro censura.
«Ma di tutto quel plauso, cosa resta?»: John Guillory l’ha chiamata “ipotesi della cospirazione”: “Una discriminazione attuata dal potere dominante, il quale valuta in maniera positiva solo ciò che più gli somiglia e che per secoli si è identificato con i tratti del potere occidentale, maschile e bianco”. Un esempio calzante per restituire meglio questa linea di pensiero, tra l’altro non del tutto nuova, può essere rappresentato dal caso delle Risposte a nome di Madonna Laura alle Rime di messer Francesco Petrarca in vita della medesima, raccolta di Pellegra Bongiovanni, l’arcade palermitana Ersilia Gortinia, che mette in atto un procedimento assolutamente degno di nota nel tentativo di promuovere l’uguaglianza dei sessi e la pari dignità della donna.

La sua raccolta si propone di conferire una reale consistenza a quella Laura (l’aura-lauro) decantata dal Petrarca nella sua evanescenza, e scrive perciò un canzoniere che “risponde per le rime” alle parole del poeta. La Bongiovanni, in altre parole, incoraggia la dialettica fra i sessi, sessualizza la sua poetica (come hanno fatto, del resto, tutte le arcadi) e, dalla presa di coscienza della lotta impari delle donne, elabora un’opera di contrapposizioni che, di riflesso, mira a porla sullo stesso piano del Petrarca – mostrandosi, tra l’altro, abilissima versificatrice petrarchista. Inutile affermare quanto questa volontà così “ribelle”, tipica delle donne moderne, abbia rappresentato un grosso fastidio per la critica dell’epoca e successiva, per il forte attrito che generava con la produzione maschile preponderante (eroismo, magnanimità e saggezza). E così, il caso di Pellegra Bongiovanni è stato sminuito a mera poesia d’imitazione, come sono state ricondotte a banali luoghi comuni le sue peculiarità biografiche di donna erudita: questa è la fine che hanno fatto, con lei, tutte le donne letterate del Settecento, le vere madri delle lotte femministe, che possono davvero darci conto di quali importanti innovazioni culturali, sociali, politiche, economiche abbiano preso piede nel secolo della ragione e della passione.
“Misogino è il mondo”, spiega Federico Sanguineti nella sua Storia letteraria in poche righe: e d’altronde il mondo, per come lo conosciamo, è stato immaginato, costruito e normalizzato con misoginia. La letteratura ne è l’esempio innegabile, ma ancora si fatica a rendere gli animi consapevoli. E così non mi resta che rimandare a quella necessità che ho espresso all’inizio: occorre ripensare in ogni caso il canone letterario italiano, tenendo in considerazione che le radici della nostra modernità risiedono in questo Settecento illuministico e riformistico, con tutte le sue contraddizioni, ricordandosi che uno sguardo non è mai neutro e che ne serve uno nuovo per guardare alla nostra storia letteraria. Uno sguardo critico che includa, che elogi e comprenda la singolarità della produzione, che non classifichi e non subordini, che raccolga il “bacolo d’Aglauro” delle arcadi per riconsegnare alle donne lo “scettro” delle pari opportunità in questa nostra storia letteraria.
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